La crisi di sistema dell’Italia che, più volte, ho connotato con il concetto sociologico durkheimiano di anomia, intesa come assenza di regole, discrepanza tra i mezzi e i fini che la società propone ai suoi componenti o, come il venir meno del ruolo dei corpi intermedi, ha assunto dimensioni ampie tanto sul piano etico e culturale che su quello economico e sociale.
Espressione ultima di questa crisi a livello politico istituzionale è quella rappresentata dal distacco tra il paese reale e quello legale indicato dall’elevata renitenza al voto che, a più riprese e livelli delle competizioni elettorali, sfiora e supera oramai più della metà del corpo elettorale.
Con la fine della “Prima Repubblica”, Berlusconi mise in scacco la “gioiosa macchina da guerra” occhettiana con la promessa di “ un nuovo miracolo italiano”. Fu una promessa vana che naufragò nella lunga stagione del periodo prodiano (2006-2008) e nella lunga querelle nazionale Berlusconi-Prodi che, alla fine, si accompagnò all’esplosione del malcontento sociale e l’avvio del fenomeno dei Cinque stelle.
Con la crisi del 2017 (“il colpo di stato” per i fedelissimi del Cavaliere) la crisi dei partiti e la loro incapacità di rappresentare gli interessi e i valori reali presenti nella società civile condusse ai governi a guida dei tecnici, di cui quello presieduto da Mario Draghi rappresenta lo strumento con il quale l’Italia ha, almeno sin qui, evitato la mano pesante della troika europea e una fine non dissimile da quella vissuta dalla Grecia.
E’ evidente che la crisi di sistema è, soprattutto, l’espressione del venir meno di quella saldatura tra gli interessi e i valori dei ceti medi produttivi e delle classi popolari che la Democrazia Cristiana seppe sempre garantire nella lunga stagione della sua egemonia-dominio (1948-1993).
E’ indubbio, altresì, che la lunga stagione della diaspora democristiana (1993-2022) tuttora in corso, nonostante i diversi tentativi operati a destra, a sinistra e al centro dello schieramento, ha coinciso con quella della rottura dell’equilibrio di cui sopra. Una rottura che impone come prioritaria la ricomposizione al centro di una vasta area democratica, popolare, liberale, riformista, europeista, collegata strettamente alle scelte di politica estera volute da De Gasperi e dalla DC nel 1949 (NATO) e UE (1954).
Una ricomposizione solo con la quale si potrà ridare effettiva rappresentanza politica al terzo stato produttivo (piccoli e medi industriali, artigiani, agricoltori, commercianti, professionisti, operatori efficienti della PA) e riportare alle urne quel cinquanta e passa per cento di renitenti al voto.
Per far questo, però, sarebbe servita una legge elettorale di tipo proporzionale, meglio secondo il modello tedesco, con sbarramento e istituto della sfiducia costruttiva e con le preferenze, al fine di evitare le liste dei “nominati” dai capi e capetti a Roma. Nominati che hanno accompagnato la più squallida stagione del trasformismo politico della storia repubblicana italiana, le cui ultime tragicomiche recite le stiamo vedendo in queste ultime ore che ci separano dalla presentazione delle liste e dei simboli in gara per le prossime elezioni politiche.
Al posto della legge proporzionale i partiti rappresentati nel parlamento di una legislatura alla fine della sua vita, hanno preferito la conservazione del rosatellum, che favorisce una bipolarizzazione destra-sinistra che, oggettivamente, impedisce la nascita di quel centro di cui il Paese avrebbe assoluta necessità per la stabilità del sistema.
Era ed è questo l’obiettivo strategico cui sono chiamati gli ex e i neo democratici cristiani, compresi quei “DC non pentiti” della terza e quarta generazione DC come molti di noi. E lo dobbiamo perseguire non per mera nostalgia (pur comprensibile rispetto al nanismo e all’improvvisazione dei politici oggi in campo),ma per la necessità di garantire un equilibrio al centro della politica che il sistema richiede.
Se non vogliamo costringere la scelta al trilemma favorito dal rosatellum: destra, sinistra o astensione, è necessario concorrere a piantare un piccolo seme al centro del confronto politico con chi è disponibile a superare il dilemma PD-Fratelli d’Italia, la cui soluzione, qualunque fosse e sarà col voto del 25 settembre, non garantirebbe e non garantirà la soluzione della crisi di sistema, inevitabilmente aggravata dalle condizioni economiche e sociali che si dovranno affrontare nel prossimo autunno.
Ecco perché nell’odierna direzione nazionale della DC, convocata on line dal segretario, Renato Grassi, abbiamo appoggiato convintamente la sua linea per convergere sulla lista di Matteo Renzi, che si pone come momento di aggregazione di uno schieramento centrale, alternativo sia alla destra nazionalista e sovranista, che alla sinistra in grande confusione mentale.
Certo chiederemo a Renzi che ci sia riconosciuta la nostra identità politica, col nostro simbolo di partito e con alcune presenze di nostri candidati autorevoli.
Certo avremmo preferito e abbiamo anche sollecitato gli amici di Mastella e Calenda per una loro convergenza ampia al centro e ci auguriamo che , superando ogni tatticismo e miopi valutazioni egoistiche, alla fine prevalga il buon senso.
Noi DC alle prossime elezioni dobbiamo esserci, forti della nostra storia politica, del nostro simbolo (a proposito riprenderemo nelle sedi opportune la questione dello scudo crociato sin qui utilizzato come mera rendita politica personale dal trio Cesa-Binetti-De Poli, al servizio subalterno di Lega e Forza Italia, oggi sotto il dominio della signora Meloni) e con alcuni nostri candidati.
Sappiamo che sarà la seminagione di un piccolo seme che, se opportunamente coltivato, fiorirà.
Dal voto del 25 settembre siamo certi che si avvierà una fase di forte ristrutturazione e ricomposizione delle forze politiche italiane e la DC, ancora una volta, sarà al centro, nella fedeltà ai valori della dottrina sociale cristiana e della Costituzione repubblicana.
Ettore Bonalberti
Vice segretario nazionale DC