Lectio degasperiana 2020
Ricostruzione e Costituzione
di Marta Cartabia
Presidente della Corte Costituzionale
Pieve Tesino, 18 agosto 2020
«Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi».
Questo splendido passo di Isaia (Is 58,12), a me molto caro, ci introduce al tema scelto con grande lungimiranza dagli organizzatori per la Lectio degasperiana di quest’anno: «Ricostruzione e Costituzione».
La parola ricostruzione risuona da mesi nella riflessione pubblica ed è risuonata nel corso di questa estate, specie nelle ultime settimane, in occasione della cerimonia di inaugurazione del nuovo ponte di Genova, ricostruito, appunto, dopo la tragedia del crollo di due anni fa. In quella occasione, l’architetto Renzo Piano, che ha donato il progetto del nuovo ponte, nel suo intervento di saluto, ha espresso, con parole bellissime, pensieri profondi da cui desidero prendere le mosse per la nostra riflessione odierna.
Anzitutto, ha osservato, la ricostruzione è sempre figlia di una tragedia, di una frattura che non si cancella e non si dimentica; una ferita che non si rimargina – come ha sottolineato il Presidente della Repubblica nella medesima occasione – e diventa l’essenza stessa di quello che saremo. La ricostruzione incorpora, dunque, un passato che non si può ripristinare così come era, ma richiede un rinnovamento. Per ricostruire occorrono un’idea e un cantiere, prosegue l’illustre architetto e senatore. Un’idea, per dare forma a ciò che non l’ha più. Un cantiere, per realizzare quell’idea attraverso il lavoro, l’opera instancabile e tenace di una comunità di persone.
Similmente, la ricostruzione dell’Italia dopo la catastrofe alla fine della Seconda guerra mondiale, ha richiesto un ideale – che ha la stessa radice etimologica di idea – e un lavoro nato dal coinvolgimento di un popolo. In quella ricostruzione Alcide De Gasperi svolse un ruolo preminente, come uomo di pensiero e di azione. Anche allora c’erano tragedie, fratture, macerie e ferite non rimarginabili; anche allora fu necessaria un’idea per ridare forma nuova alla convivenza civile di un popolo disorientato; anche allora fu necessario un grande cantiere per ricostruire su solide fondamenta la casa comune.
Oggi, come allora, – superate le fasi più acute dell’emergenza innescata dalla pandemia – siamo alle prese con una ricostruzione, avviata quando si è incominciato a pensare al “dopo”. A un “dopo” che difficilmente potrà assumere la forma di un semplice ritorno al “prima”, sia pure dopo una parentesi lunga, dolorosa e straniante, ma pur sempre una parentesi.
In questo frangente, è più che mai fecondo riandare alle fonti della storia. Con una avvertenza: la parola ricostruzione sta tornando a dominare la scena, ma il contesto storico del nostro oggi è unico, irripetibile e non sovrapponibile in alcun modo ad epoche passate. Sicché, proprio come notava Piero Barucci in apertura del suo volume sulla ricostruzione, pubblicato nel 1977, è ben vero che «anche oggi siamo economicamente in un dopoguerra senza la guerra»; ma il valore dell’insegnamento che si può trarre dalla storia non è tanto legato alle specifiche soluzioni elaborate con più o meno successo in altri frangenti, quanto al metodo tenacemente applicato e alla tensione risolutiva che muoveva l’azione dei protagonisti.
In questa prospettiva, ricco di spunti di riflessione anche per il nostro oggi è il percorso di un uomo, qual è Alcide De Gasperi, che ha fatto della ricostruzione una delle sue principali preoccupazioni e, soprattutto, il metodo della sua azione politica; un uomo che, non a caso, ha operato da protagonista sulla scena pubblica proprio in quel decennio della storia d’Italia che viene usualmente denominato «periodo della ricostruzione» dopo le guerre e il fascismo. Significativo è che il documento più organico in cui si possono rintracciare le linee di pensiero e di azione di Alcide De Gasperi rechi il titolo «Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana» del 1943.
Egli contribuì alla ricostruzione con pensiero e azione: idee e cantieri, per riprendere ancora la felice immagine usata da Renzo Piano. Il contributo di De Gasperi alla ricostruzione non può essere compreso disgiungendo questi due aspetti, che in lui furono sempre uniti. Il primo è quello più propriamente di pensiero, che egli ebbe modo di elaborare in particolare durante il periodo dell’“esilio” in Vaticano e del lavoro condiviso con gli esponenti del Partito Popolare e con i giovani che avevano preso a riunirsi dall’inizio del 1940 a casa di Sergio Paronetto.
Qui si era incominciato a ragionare seriamente di ricostruzione. Tra le personalità che partecipavano a questi incontri, che sarebbero poi scaturiti nella redazione del Codice di Camaldoli del 1943, vi erano oltre allo stesso De Gasperi, anche Guido Gonella, Giuseppe Spataro, Mario Scelba, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi e infine anche Giulio Andreotti. In quei raduni, Paronetto, morto nel marzo del 1945, fu, secondo la testimonianza di Ezio Vanoni, tra le persone più vicine a De Gasperi molte delle sue riflessioni confluiranno, a tratti letteralmente, nel Testamento politico di De Gasperi. Questi, in una lettera dell’ottobre 1943, ebbe a scrivergli:
«uscito dalla biblioteca, nel breve spazio di tempo che m’era consentito di farlo, sono venuto da voi e da altri in tutta umiltà per imparare ed aggiornarmi, con una sete del concreto e dell’elemento tecnico che non s’è lasciata vincere nemmeno dalla relatività delle conclusioni Partecipo di lontano coll’augurio ai vs. lavori e ne spero molto, per i cattolici e per i politici. Se ci sarà da imparare (e come non sarà?) mi avrete scolaro entusiasta, collo sguardo all’avvenire».
Dunque, il primo fronte del suo impegno, che non fu mai disconnesso dal secondo, è quello della elaborazione delle idee, della riflessione personale e condivisa, dell’apprendimento costante, anche dai più giovani.
Il secondo aspetto, quello dell’azione, si sviluppa sul terreno della politica, che lo vede protagonista con responsabilità di governo per un decennio, proprio nel volger di tempo in cui la Repubblica italiana veniva alla luce e muoveva i primi, decisivi, passi e contemporaneamente si gettavano i semi delle prime forme dell’integrazione europea, si firmava il Trattato di Pace e si tessevano le prime relazioni dell’alleanza atlantica. Allo stesso tempo, era drammaticamente urgente procedere alla ricostruzione materiale di ciò che era andato distrutto e provvedere ai bisogni di base della nazione che dopo anni di guerra era allo stremo moralmente ed economicamente.
La sua azione ricostruttiva, dunque, si muoveva contestualmente su una pluralità di piani e rispondeva a una «visione integrale» dei bisogni che urgevano. Tutt’altro che secondaria per lui fu altresì la componente morale e culturale. Il suo imponente “cantiere ricostruttivo” portò a risultati tangibili, da più parti qualificati come prodigiosi nella storia d’Italia e d’Europa, perché egli non trascurò mai il “fattore umano” nella sua integralità, convinto che «più che i programmi contano gli uomini che sono chiamati ad attuarli». Parole sue. Il messaggio che proprio ieri il Presidente della Repubblica ha inviato agli organizzatori del Meeting di Rimini, testimonia l’intramontabile attualità del metodo di De Gasperi: «Nei passaggi storici più importanti pesano, ovviamente, le condizioni materiali. Ma il rilancio è possibile se, accanto al legittimo gioco degli interessi, si manifesta capacità progettuale, tendenza allo sviluppo 4 integrale della persona, impegno per la crescita di umanità che sconfiggano spinte alla chiusura, al risentimento, all’avversione, che condurrebbero invece al fallimento».
1. Ricostruzione e Costituzione
Veniamo più da vicino al tema della nostra riflessione che è «Ricostruzione e Costituzione»: ed è sul terreno costituzionale, a me più familiare, che intendo rimanere saldamente ancorata. È bene però sin da subito sottolineare che per comprendere il contributo così ricco e articolato, come quello che offrì De Gasperi alla ricostruzione costituzionale, occorre affrancarsi da una nozione meramente testualistica di Costituzione per abbracciarne una più ampia e ricca, che include la prima, ma non si esaurisce in essa. Le costituzioni nascono dalla storia e vivono nella storia. Il momento della scrittura di una costituzione è un momento epico nella vita di un popolo; eppure, solo con la scrittura, la Costituzione non può garantire se stessa.
Occorrono soggetti sociali, politici e istituzionali che siano in grado di conferire alle scelte costituzionali solide fondamenta e radici robuste, capaci di reggere all’urto delle intemperie. Per questo rimane attuale l’intuizione fondamentale di Costantino Mortati che ci ha consegnato una nozione complessa di costituzione, risultante tanto dal testo scritto – la Costituzione formale – quanto dai rapporti tra le forze sociali e politiche – la Costituzione materiale. Ed è proprio su questo piano che si può apprezzare il lascito di De Gasperi. Infatti, chi si basasse solo sul processo di scrittura della nuova carta costituzionale, cioè si affidasse solo lettura dei lavori dell’Assemblea costituente, ne trarrebbe l’impressione di una assenza o di una presenza assai parsimoniosa: fatto salvo un intervento importante al momento dell’approvazione del futuro articolo 7 della Costituzione sui rapporti con la Chiesa cattolica, si annoverano altri due brevi interventi, all’inizio e alla fine dei lavori, e niente più.
Se paragonato al contributo degli altri cattolici eletti in Assemblea costituente – Dossetti, La Pira, Moro, solo per citare alcuni nomi eminenti – l’apporto diretto di De Gasperi alla scrittura della carta costituzionale appare assai contenuto. Eppure, non errano quegli osservatori italiani e stranieri che attribuiscono un ruolo di spicco allo statista trentino in tutta la fase costituente. In anni recenti, un autorevolissimo osservatore esterno al dibattito politico italiano non esita a definire De Gasperi come vero e proprio leader carismatico della svolta costituzionale italiana dopo la fine della seconda guerra mondiale. Si tratta di Bruce Ackerman, eminente costituzionalista dell’Università di Yale, che nella sua più recente opera che indaga sulle origini e sulla legittimazione delle Costituzioni contemporanee riserva un ampio spazio alla nascita della Costituzione italiana, annoverandola tra le esperienze di successo, accanto a Francia, India, Iran, Israele, Sud Africa.
Egli descrive un processo fondativo suddiviso in varie fasi, ove dopo la rottura netta con un passato regime, interviene una leadership carismatica, capace di trasformare l’impeto di rottura con il regime pregresso in una energia costruttiva, da cui scaturisce la nuova Costituzione. È in questa seconda fase che Ackerman riserva un posto di prim’ordine ad Alcide De Gasperi nella nascita della Costituzione italiana, paragonandolo a Jawaharlal Nerhu nella conquista dell’indipendenza in India e ancor più a Nelson Mandela nella rinascita del Sud Africa dopo la fine dell’apartheid: tutte personalità, si osserva, dotate non di un carisma sensazionale e spettacolare, ma leaders simbolici «i cui decisivi atti di sacrificio sono stati esempi paradigmatici nella più ampia battaglia per la realizzazione di un nuovo inizio nella vita politica della nazione». Di De Gasperi Ackerman valorizza anzitutto l’opposizione al fascismo, il carcere e la solitudine degli anni seguenti, trascorsi nell’oscurità della biblioteca vaticana, dove lavorava durante il periodo fascista come modesto impiegato esecutivo: un percorso biografico segnato da lunghi momenti di abbandono, incomprensione, solitudine e sacrificio, componenti non secondarie della sua leadership.
Ma decisiva, agli occhi dello studioso americano, è anche la linea politica di De Gasperi, sempre animata dalla esigenza di pacificazione, composizione e stabilizzazione di una comunità nazionale frantumata al suo interno ed esposta a forze divergenti all’esterno. Il filo conduttore della sua opera, come è stato notato, era costituito da «una proposta di collaborazione nella diversità», che non ha mai evitato lo sforzo di addivenire, gradualmente e con il consenso delle parti, a soluzioni che tenessero conto delle diverse posizioni. Ciò si verificava sia nei confronti delle altre forze politiche, sia all’interno della Democrazia Cristiana, attraversata da una vivace dialettica e da forti dissensi: egli ha saputo «piegare efficacemente verso il centro le dinamiche interne ed esterne al partito, bilanciando conservatorismo e spinte riformiste». La sua fu un’opera di “coibentazione” e consolidamento delle istituzioni repubblicane e della nascente democrazia, attraverso un’azione di politica interna ed estera che si svolse parallelamente ai lavori dell’Assemblea costituente, per assicurarne la permanenza al di là del mutare dei governi.
De Gasperi aveva visto in prima persona cadere sotto i colpi del fascismo non solo il costituzionalismo italiano, ma anche la Costituzione di Weimar del 1919, avanzatissima nei suoi principi, ma fragilissima nella sua struttura, in cui non si era riusciti a trasferire al nuovo sistema politico la lealtà degli apparati del vecchio: un fallimento, quello di Weimar, che spianò la strada al nazionalsocialismo e all’ascesa di Hitler in Germania, a causa della frammentazione sociale, della crisi economica e della distanza siderale che si era venuta a creare tra i principi proclamati e la realtà politica e sociale esistente. Egli aveva attraversato le due guerre mondiali e sperimentato l’incapacità di mantenere la pace sul continente europeo. Sapeva bene, per averlo visto, che le Costituzioni hanno bisogno di un fertile humus politico, sociale e morale in cui affondare le radici, pena la loro fragilità, come non mancò di sottolineare nel suo breve intervento dopo l’approvazione finale della Carta costituzionale, il 22 dicembre 1947:
«Il Governo ora, fatta la Costituzione, ha l'obbligo di attuarla e di farla applicare: ne prendiamo solenne impegno. Noi tutti però sappiamo, egregi colleghi, che le leggi non sono applicabili se, accanto alla forza strumentale che è in mano al Governo, non vi è la coscienza morale praticata nel costume».
De Gasperi veniva da lontano e guardava lontano: per questo vedeva nella stabilizzazione nazionale, europea e internazionale il necessario complemento all’operazione costituente, che egli perseguiva con la sua azione di governo, distinta ma parallela ai lavori della Costituente.
2. Ricostruzione costituzionale: una questione di metodo
Collocato in questo contesto di più ampio respiro, il numero limitato dei suoi interventi diretti ai lavori dell’Assemblea costituente è, dunque, un indicatore scarsamente significativo per valutare la reale incidenza che il pensiero e l’azione di De Gasperi spiegarono sulla configurazione del nuovo ordine costituzionale. Al contrario, la fase costituente fu segnata profondamente dalla sua azione. Tra l’altro, egli contribuì con un apporto decisivo ad alcune fondamentali scelte di metodo che agevolarono la transizione, permettendo che la Carta costituzionale fosse scritta in tempi relativamente brevi e soprattutto in un clima pacifico e collaborativo fra tutte le forze politiche antifasciste, anche nei momenti più critici e di maggior tensione. Si possono evidenziare tre punti:
- anzitutto la scelta per la Costituente in luogo del metodo insurrezionale;
- in secondo luogo la decisione a favore del referendum istituzionale;
- infine, la delimitazione dei poteri dell’assemblea costituente, escludendo dal suo campo di intervento l’azione di governo e la legislazione ordinaria.
1. Sul primo fronte, occorre osservare che sin dall’epoca delle discussioni in sede di CNL si fece fautore dell’idea di una Assemblea costituente in opposizione all’ipotesi insurrezionale avanzata dai socialisti. Famose sono le dichiarazioni che egli pronunciò in sede di CNL:
«Non temo la parola rivoluzione, ma ne ho fastidio dopo venti anni che il fascismo, richiamandosi ai diritti della rivoluzione, ha commesso tante soperchierie e violato i diritti dei cittadini. Ad ogni modo la vera rivoluzione è la Costituente».
La vera rivoluzione è la Costituente. De Gasperi è lapidario. Le sue parole lasciano intendere che sullo sfondo si svolgeva una discussione condizionata dalla dicotomia restaurazione–rivoluzione, come se l’alternativa che si poneva alla fine del fascismo fosse un aut-aut: o un ritorno al passato, o un sovvertimento radicale, una palingenesi sociale da imporsi con il metodo insurrezionale. De Gasperi non si fa intrappolare nell’alternativa tra nostalgie e utopie. Dal punto di vista metodologico egli prediligeva la strada della ricostruzione, una terza via alternativa tanto alla mera restaurazione quanto alla radicalità della rivoluzione. E tale via passava attraverso una Costituente, democraticamente eletta. Il suo obiettivo era di assicurare alla nascente democrazia una prospettiva stabile e proiettata a lungo nel futuro, ben oltre il momento epico della fase costituente, cosa che la rivoluzione non era in grado di assicurare:
«noi siamo preoccupati soprattutto di salvare nel futuro lo Stato democratico […] noi desideriamo il metodo permanente della democrazia, che è l’antirivoluzione».
2. Altrettanto netta è la sua posizione quanto al metodo per risolvere la questione istituzionale, nella scelta cruciale tra monarchia e repubblica. Questa alternativa era fortemente lacerante sul piano politico, lungo vari crinali che dividevano il paese. Per questo, la sua proposta fu sempre chiara nel voler sottrarre questo compito gravoso all’Assemblea costituente. Il nodo tra monarchia o repubblica doveva essere sciolto con un voto diretto da parte del popolo. Di referendum istituzionale egli parlò sin dal giugno 1944, in fase di discussione del primo decreto luogotenenziale (n. 151), noto come “prima costituzione provvisoria”. In quella fase, le contrapposizioni impedirono di giungere a una soluzione condivisa, perché molti ritenevano che il popolo italiano non fosse maturo per un tale voto.
La sua preferenza era a favore di una consultazione popolare da svolgersi nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente dopo che fossero già stati definiti i principi fondamentali del nuovo ordine costituzionale, in particolare le libertà fondamentali dei cittadini e le linee essenziali dell’architettura dei poteri dello Stato. Questa proposta non incontrò però il favore delle altre forze politiche, sicché, quando, con la seconda costituzione provvisoria, decreto luogotenenziale n. 8 98 del 1946, si decise di optare per il referendum, si scelse di collocarlo a monte dei lavori costituenti. Su questo punto il dissenso era radicale anche nei confronti di Sturzo, al quale De Gasperi era legato da una storia personale e politica di lunga data. Nella minuta di una lettera a lui indirizzata, Sturzo scriveva in termini netti e lapidari la sua «opinione contraria al plebiscito pro monarchia o repubblica». Categorica anche la posizione di Dossetti, il quale si preoccupava che il popolo, temendo il “salto nel buio” inevitabilmente propendesse per la monarchia e accusava De Gasperi di aver voluto il referendum proprio per conseguire l’obiettivo dissimulato di mantenere la monarchia. Queste contrapposizioni interne al suo stesso partito, per quanto dolorose sul piano anche personale, non incrinavano la convinzione di De Gasperi, il quale vedeva nel referendum uno strumento di pacificazione, il mezzo per assicurare alla repubblica, della quale prevedeva il successo, un consenso più ampio. Sul punto a Sturzo egli scriveva:
«per me il referendum ha un grande valore morale, perché dà il senso democratico e pacificatore di una suprema decisione popolare e di un consenso esplicito della maggioranza alla nuova forma dello Stato».
L’intento era soprattutto quello di conferire a una scelta così decisiva e condizionante la solidità che può derivare da una libertà di decisione e da un largo consenso di opinione, affinché sin dall’inizio la nuova forma di stato fosse dotata di una robusta base fondativa.
3. Il favore di De Gasperi per il referendum istituzionale era mossa anche dall’obiettivo di evitare che l’ombra della discussione su un punto così controverso, si proiettasse sui lavori dell’Assemblea costituente, avvelenandone il clima. In effetti, un aspetto non secondario che caratterizzò i lavori dell’Assemblea costituente, e ne garantì il successo, fu l’atmosfera di cooperazione fattiva, di dialogo aperto, di ricerca di soluzioni condivise anche sugli aspetti più spinosi. Un esempio per tutti: quello dei difficili rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, risolto con l’approvazione dell’art. 7 anche con l’inatteso sostegno di Togliatti e del Partito comunista, che semplificò non poco il compito dello stesso De Gasperi.
A preservare questo clima costruttivo contribuì, con effetti per nulla marginali, la decisione di delimitare i poteri dell’Assemblea costituente, togliendo dal paniere dei nodi da sciogliere sia, come si è detto, la questione istituzionale, sia l’attività di legislazione ordinaria, che avrebbe con ogni probabilità dilatato i tempi di lavoro della Costituente e moltiplicato le occasioni di scontro. Egli non volle mai caricare l’Assemblea costituente delle funzioni di legislazione ordinaria, che vennero portate in capo all’esecutivo. Le uniche eccezioni erano costituite dalla legislazione elettorale e quella di ratifica dei trattati internazionali. Ciò si rivelò provvidenziale giacché permise di mantenere il clima di collaborazione fra tutte le forze politiche all’interno dell’Assemblea costituente anche nel corso del ’47, quando il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti portò a un progressivo inasprimento dei rapporti con i comunisti, culminato, nel maggio del medesimo anno, con la loro esclusione dal governo. Erano i mesi decisivi per la conclusione del Trattato di pace e, allo stesso tempo, per il perfezionamento del testo costituzionale. Le tensioni di quel momento sono impresse nella memoria di tutti per la forza delle parole con cui prese l’abbrivio il suo famoso discorso a Parigi al Palazzo del Lussemburgo, di fronte ai delegati delle potenze vincitrici:
«Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me. […] ho il dovere […] di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista […]».
A Parigi, come già a Londra, si trovò in un ambiente di freddezza e di sospetto. Ma parlò con nobiltà, come rappresentante dell’Italia, ma dell’Italia democratica; come uno che per la libertà aveva patito. Nella sua parola vibrava il sentimento della libertà e della democrazia; e colpì l’uditorio. Al rientro in Italia, all’atto della ratifica del Trattato di Pace, De Gasperi fu investito con accuse di debolezza: di «cupidigia di servilismo», secondo la nota espressione di Vittorio Emanuele Orlando. Ma De Gasperi aveva accettato il trattato, pur con le sue dure condizioni, come un male inevitabile, per riportare l’Italia a pieno titolo nell’arena degli attori internazionali. E nell’accettarlo iniziò subito lo sforzo perché fosse revisionato. Nonostante questo contesto, il lavoro dell’Assemblea costituente proseguì con la partecipazione attiva e costruttiva di tutte le forze politiche, anche quelle che si trovavano ormai escluse dal governo. Peraltro è da notare che la fuoriuscita di alcune forze politiche dalla compagine governativa, attraverso quello che fu definito da Leopoldo Elia la conventio ad excludendum, non determinò mai in Italia la loro espulsione dalle istituzioni rappresentative, a differenza di quanto accadeva in molte altre democrazie occidentali, a partire dalla Repubblica Federale tedesca, che adottavano misure per “proteggere” le nascenti democrazie, sospingendo fuori dalla legalità i partiti antisistema.
3. Un uomo di confine, saldamente ancorato a terra e con lo sguardo lontano
Questi tre interventi – l’Assemblea costituente, il referendum istituzionale e la distinzione dell’azione di governo da quella propriamente costituzionale – permisero di «gettare un ponte sull’abisso» e di giungere al più grande rivolgimento della storia politica moderna d’Italia nella 10 concordia, mentre altrove furono guerra civile, terrore e massacri, come egli stesso osservò nel suo discorso all’Assemblea costituente il 25 giugno 1946. C’è da chiedersi da dove De Gasperi attingesse una tale chiarezza di giudizio, una tale tenacia nell’azione e una tale creatività nell’individuazione di soluzioni praticabili e condivisibili, in un periodo così confuso e convulso, eppure così decisivo, della storia di Italia e d’Europa. Lascio a chi meglio di me conosce la sua storia personale individuare le sue risorse più profonde, che forse più adeguatamente possono rispondere a questo interrogativo. Per quanto mi riguarda, l’occasione che mi avete offerto di tornare a riflettere sulla sua vita politica mi ha portato all’evidenza un dato tanto ovvio quanto significativo ai miei occhi. De Gasperi, il ricostruttore – come è definito in un libricino pubblicato nel 1955 da Igino Giordani, che lo aveva fatto assumere alla Biblioteca Vaticana negli anni difficili dopo la scarcerazione– De Gasperi, il ricostruttore era un uomo di confine. Tutta la sua vita è attraversata da confini di varia natura.
Ne richiamo tre, i più evidenti ai miei occhi.
Tra Italia e Austria: dal punto di vista geografico De Gasperi nasce cittadino austriaco, vive in Trentino, una terra di confine, che all’epoca era parte dell’Impero Austro-Ungarico e che proprio nel corso della sua vita divenne italiana. Studia in Austria, tra Vienna e Innsbruck e qui inizia le sue attività politiche, come studente prima e come deputato del Parlamento austriaco poi. Dopo il passaggio del Trentino all’Italia, nel 1919 acquista la cittadinanza italiana ed entra a far parte del Partito popolare di Luigi Sturzo, da cui prese avvio il suo impegno politico romano che lo porterà ad essere un esponente politico di spicco, forse l’esponente politico di maggior spicco, nella sua epoca.
Tra Impero e Repubblica: dal punto di vista storico la sua vita attraversa varie cesure epocali: si forma al tempo dell’impero asburgico, assiste al suo crollo, attraversa il dramma della prima guerra mondiale, è spettatore della crisi del 1929 e dell’ascesa del fascismo, ne denuncia invano le derive partecipando all’Aventino; patisce il carcere; resta in secondo piano fino al tramonto del regime e, sul finire della seconda guerra mondiale, si trova pronto ad operare per la ricostruzione d’Italia e d’Europa come protagonista politico. Il suo impegno pubblico accompagna la nascita della Repubblica italiana e i primi passi dell’integrazione europea, presiedendo tra l’altro la Comunità economica del carbone e dell’acciaio e vedendo fallire, per contro, il progetto della Comunità europea di difesa. Pochi periodi storici sono stati teatro di continui rivolgimenti e svolte di regime come gli anni in cui visse e operò Alcide De Gasperi.
Tra Stato e Chiesa: uomo di profonda fede cattolica, De Gasperi si trova ad operare nel contesto politico italiano profondamente segnato da una storia di ostilità e diffidenze tra lo Stato e la Chiesa, cause, queste, di non irrilevanti difficoltà per i cattolici impegnati in politica: una storia segnata tra l’altro dal non expedit prima e da complesse relazioni nel periodo fascista, durante il quale si addivenne alla firma dei Patti lateranensi nel 1929. Come osserva Pietro Scoppola, «una relativa solitudine fu la condizione obiettiva di un uomo che agiva in costante dialettica con il mondo di cui appariva il rappresentante sul piano politico».
De Gasperi, dunque, è forgiato alla complessità del reale, al senso del limite e, allo stesso tempo, all’apertura verso gli ampi orizzonti che ogni frontiera comporta; è avvezzo ad agire su crinali esposti a tensioni contrastanti: una vita di confine, come uno iato aperto a molteplici direzioni. Di qui, forse, il suo metodo che rifugge gli estremismi nella perenne ricerca di un equilibrio, nella individuazione del bari-centro possibile. L’idea del confine e della ricerca del centro permette di rendere ragione di alcuni aspetti che, come si è visto, contraddistinguono il suo contributo alla rinascita costituzionale italiana. Nell’azione di De Gasperi sembra di vedere in atto l’idea di centro di cui parla Romano Guardini nel 1925 in un breve scritto, intitolato: L’opposizione polare, dove si parla del centro come di un «punto di raccordo», nulla «di fisso che si possa dire: è qui o lì»; un luogo ideale dove «gli opposti stanno insieme». Ed è misura.
Il politico trentino manterrà sempre questo atteggiamento che, cogliendo l’importanza e l’imprescindibilità degli opposti, «coglie pure la misura», dove «misura è accordo, giusto rapporto». La sua linea politica è orientata alla continua ricerca del centro, in modo da ricomporre le inevitabili polarità, guardando anzitutto ai fatti: di qui l’idea di ricostruzione che, come si è detto, non è restaurazione, ma neppure rivoluzione: «Il ricostruttore non s’indugerà in discussioni ideologiche alla ricerca dello Stato ideale né, d’altro canto, si lascerà turbare dai miti di una palingenesi rivoluzionaria», si legge nel Testamento politico che prosegue, richiamando ironicamente una battuta del politico belga Félix de Mérode: «Quando ordino un paio di scarpe il calzolaio prende le misure sul piede mio e non su quello di Apollo». La ricostruzione che egli propone è un metodo che parte dal dato di realtà, confida nella forza dei fatti e segue le tracce presenti nella storia così com’è.
Tra tante, spicca una qualità della sua azione politica che, mi pare, derivi proprio dalla sua caratteristica di uomo di confine, sempre chiamato a camminare su un crinale, a muovere i suoi passi in ambienti impervi, insidiosi e severi: la qualità è quella di un realismo lungimirante. Certo, si potrebbe obiettare, c’è un realismo prigioniero della realtà stessa, che si risolve in un immobilismo, in pura fatalistica conservazione. Ma non è questo il realismo che caratterizza l’azione e, oserei dire, la vita di De Gasperi: la traccia che egli ha lasciato nella storia d’Italia e d’Europa è quella di un rinnovamento che pesca nell’esistente e ha un respiro di lungo periodo. La sua è una politica che pone le basi di alcuni orientamenti di fondo, alcuni dei quali si realizzano subito e altri matureranno nel tempo.
Il suo è un realismo lungimirante, perché animato da grandi ideali, «impregnato di idealità», come ebbe già a scrivere nel 1922 su «Il Nuovo Trentino»; un realismo che lo accomuna ai fondatori dell’unificazione europea espresso nella famosissima dichiarazione del 1950 di Robert Schuman, anch’egli significativamente, uomo di confine: «L’Europa non si farà d’un tratto, non sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Ideali alti – l’unificazione e la pacificazione del continente europeo – perseguiti attraverso strumenti possibili, graduali, condivisi, in dimensione umana. Di qui la loro durata nel tempo. Da quei primi malfermi tentativi – la Comunità del carbone e dell’acciaio e l’abortita comunità europea di difesa – anche oggi l’Unione europea continua il suo cammino, attraverso mille crisi, esitazioni, fallimenti, riprese e rilanci, mostrando di saper mettere in atto, all’occorrenza, gesti di “solidarietà di fatto”, che come alle origini sono in grado di muovere un nuovo dinamismo.
Di questa conquista, oso pensare, De Gasperi sarebbe stato fiero.
In una lettera del 7 luglio 1928, scritta dal carcere mentre la sua famiglia si trovava in montagna per il periodo estivo, De Gasperi scrive: «Anche io sto preparandomi per una scalata di roccia […] sai dove sto esercitandomi? Nelle Malebolge dell’inferno dantesco, con Virgilio che dirige la scalata, senza corda e senza piccozza (per il pericolo del fulmine) [si noti, per inciso, che anche nel XXIV canto dell’infermo la risalita in arrampicata libera sulla roccia è dovuta al crollo del ponte – venimmo al guasto ponte XXIV, 19].
Ma intanto [prosegue la lettera, introducendo una splendida citazione dantesca]:
Così, levando me su ver la cima
D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia,
Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa;
ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia.
Non era via da vestito di cappa».
Il metodo di De Gasperi è tutto qui. Il cammino sicuro del montanaro, dal passo fermo che arriva senza dubbio alla vetta: «uno stile di concretezza, di rigore, di realismo, animato da una grande tensione ideale: è De Gasperi», come ricordava Pietro Scoppola qualche anno fa in questa medesima occasione, nella prima Lectio del 2004.
Non è l’assenza delle avversità a permettere la ricostruzione e la rinascita, ma il saper discernere una strada percorribile che le attraversa e le supera, di un superamento che innova, di un’innovazione che non rinnega il passato, che non si arresta mai neppure di fronte a un ponte crollato, come nelle Malebolge dantesche: levando me su in ver la cima. Una via percorribile, indicata da una guida sicura; percorribile per quanto scomoda e impervia – non era via da vestito di cappa - erta, esposta e disagevole, lungo la quale il ruolo di chi conduce sta tutto nell’avvistare, passo dopo passo, un appiglio – avvisava un’altra scheggia – per potersi aggrappare e procedere nell’ascesa. E come l’alpinista sa bene, occorre sempre verificare che l’appiglio sia tal ch’ella ti reggia, che sia in grado di sostenerti, pena la rovina.
Questo splendido passo della Commedia che egli regala alla moglie in uno dei momenti più bui della sua esistenza racchiude tutta la sua personalità e il segreto del suo “carisma”: un uomo con i piedi saldamente ancorati a terra e con lo sguardo rivolto in alto e lontano.