Giorgio La Pira nasce a Pozzallo, nel sud della Sicilia, il 9 gennaio 1904. A dieci anni va dallo zio Luigi Occhipinti a Messina, per proseguire gli studi (per informazioni sulla famiglia di La Pira clicca qui). Lo zio gestisce un commercio di vini, tabacchi e liquori di cui Giorgio diviene collaboratore (vedi: il lavoro di rappresentante); massone e anticlericale, non vuole neanche vederlo parlare con i preti. La sua formazione giovanile si compie nella Messina del terremoto; fa parte di un gruppo di giovani che respirano a pieni polmoni l’aria che circola. Rifiutano l’Italia di Giolitti giudicata troppo umile e rassegnata, si entusiasmano per D’Annunzio e Marinetti perché incarnano la ribellione, l’anticonformismo; ma, allo stesso tempo, leggono moltissimo e si avvicinano ad altre esperienze. Del gruppo fa parte Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel per la letteratura: il carteggio tra La Pira e Quasimodo è un dialogo spirituale altissimo.

Diplomatosi in ragioneria nel 1921, La Pira viene convinto dal suo insegnante di italiano, Federico Rampolla Del Tindaro, a proseguire gli studi. Consegue la maturità e si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza. Conosce monsignor Mariano Rampolla Del Tindaro, fratello di Federico, che diviene sua guida in una intensa vita spirituale (vedi la  lettera a Monsignor Rampolla). Nel 1924, durante la Messa di Pasqua succede qualcosa che lo porta a consacrare la vita a Dio. È il giorno che i biografi indicano come data della sua conversione. Lui stesso racconta l’episodio, in una lettera all’amico Salvatore Pugliatti; La Pira dunque decide di consacrarsi a Dio: il suo desiderio però è di svolgere il suo apostolato nel mondo.

Il giovane Giorgio La Pira arriva a Firenze nel 1926, seguendo il professore con cui sta preparando la tesi in storia del Diritto Romano. Viene per laurearsi, e ci rimarrà tutta la vita. È un amore a prima vista, come testimoniano le prime lettere scritte ai familiari.

A Firenze La Pira studia, insegna, partecipa alle attività caritative della San Vincenzo de’ Paoli. Lo chiamano "il professorino"; quando è lui a parlare alle riunioni della Gioventù Cattolica c’è sempre il pieno. Nel frattempo, rinnova l’adesione al Terz’ordine Domenicano, e sceglie come abitazione una cella nel convento di San Marco.Qui resterà fino a che la tendenza a ammalarsi di bronchite non lo costringerà a trasferirsi; ma tornerà spesso a pregare e a condividere la mensa con i frati. Il desiderio di consacrarsi a Dio lo porta anche ad essere tra i fondatori, nel 1928, dell’Istituto dei Missionari della Regalità di Cristo, voluto da padre Agostino Gemelli, un istituto secolare -che opera nell'ambito dell'ordine francescano- presso il quale prenderà i voti di povertà, obbedienza, castità.

Gli anni trenta a Firenze sono anni pieni di fermento. Ci sono i poeti, gli scrittori: Giovanni Papini, Piero Bargellini... Tra le persone che hanno maggiore influenza su La Pira c’è don Giulio Facibeni, il fondatore della “Madonnina del Grappa”. E il cardinale Elia Dalla Costa, con il quale La Pira si consiglia prima di qualsiasi decisione e che tante volte lo difenderà dalle critiche e dalle malignità. La Pira frequenta anche la casa di don Raffaele Bensi, che diviene suo padre spirituale e confessore. È qui, come racconta lo stesso La Pira, che nasce l’idea della “Messa dei Poveri” nella chiesetta di San Procolo.

È proprio dagli impegni di carità che nascerà la passione di La Pira per la politica che per lui è un modo più efficace per fare del bene. Molti, all'interno della Chiesa italiana, avevano capito che il crollo del regime fascista era vicino e si doveva preparare una classe politica nuova, in grado di diventare protagonista nella ricostruzione della società: il giovane La Pira occupa un ruolo importante. La Pira partecipa agli incontri clandestini che sin dal 1940 si svolgono a Milano, nell’ambito dell’Università Cattolica, insieme a Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani. In quegli stessi anni, viene invitato spesso ai raduni del Movimento Laureati Cattolici e della FUCI ; quando, nel 1943, a seguito di questa intensa attività viene redatto il “Codice di Camaldoli”, vero e proprio manifesto di impegno politico elaborato da intellettuali e studiosi cattolici, La Pira figura ufficialmente tra gli esperti consultati per la stesura del documento.

Nel 1939 fonda la rivista “Principi”, sulle cui pagine difende in maniera coraggiosa il valore della persona umana e la libertà e che viene soppressa dal regime fascista.
Nel periodo delle persecuzioni razziali si dedica anche ad aiutare famiglie di ebrei a nascondersi nei conventi.

Quando la città è occupata dai nazisti, nel 1943, La Pira, ricercato, si rifugia a Fonterutoli, nella casa di campagna dell’amico Jacopo Mazzei, padre di Fioretta, poi a Roma, in casa di monsignor Giovambattista Montini, il futuro papa Paolo VI.

In questo periodo tiene corsi di dottrina sociale all’università Lateranense nei quali La Pira sottolinea l’urgenza, per i laici cristiani, di passare dalla preghiera all’impegno sociale: le lezioni saranno poi pubblicati nel volume La nostra vocazione sociale .

Quando torna a Firenze dopo la Liberazione, nel 1944, La Pira è uno degli esponenti più preparati del movimento cattolico italiano. Il 2 giugno del 1946, viene eletto a far parte dell’Assemblea Costituente.

All’interno della Costituente, La Pira fece parte della prima sottocommissione, quella che scrisse i “Principi fondamentali”. Fu tra gli artefici del dialogo tra gli esponenti cattolici (tra gli altri Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani, Aldo Moro) e i rappresentanti di altre correnti ideologiche (i socialisti Lelio Basso e Piero Calamandrei, il comunista Palmiro Togliatti).

Tanti articoli della Costituzione italiana portano la sua firma: quelli sulla dignità della persona (articoli 2 e 3), sul rapporto tra stato e chiesa (articolo 7), quello in base al quale l’Italia ripudia la guerra (articolo 11).
In Parlamento, insieme a Fanfani, Dossetti, Lazzati, compone il gruppo dei "professorini": intransigenti nel porre come priorità assolute le questioni sociali e la lotta alla disoccupazione, sono spesso in contrasto con i vertici del governo e della Dc.

Nel 1948 viene eletto alla Camera dei Deputati. De Gasperi lo chiama come sottosegretario al lavoro nel suo quinto governo. In tale funzione La Pira si trova spesso a svolgere un difficile ruolo di mediatore in aspre battaglie, tra sindacati agguerriti, industriali non disposti a cedere e i ministri del bilancio e delle finanze poco inclini alla trattativa.

Seguendo gli economisti inglesi Keynes e Beveridge, La Pira indica, come obiettivo fondamentale dell’azione politica, la “piena occupazione”: dare lavoro a tutti non è un miraggio, ma un obiettivo possibile. La politica doveva rispondere, diceva La Pira, alle attese della povera gente: proprio questo è il titolo di un suo famoso articolo, che suscitò un profondo dibattito.

La sinistra dossettiana della DC lascia il governo nel 1949. Nel 1951 La Pira accetta, a seguito di forti pressioni esercitate anche da autorità religiose, di fare il Capolista per la Democrazia Cristiana nelle elezioni amministrative del 10 e 11 giugno. Decisivo per l’accettazione il progetto di dare una risposta concreta e globale alle emergenze nuove della politica soprattutto dopo l’esperienza di governo che seguì quella alla Costituente.

In seguito alla vittoria della coalizione quadripartita (DC, PLI, PRI, PSDI), La Pira, cui erano andate oltre 19000 preferenze, viene eletto per la prima volta Sindaco di Firenze, prendendo il posto di Mario Fabiani, che aveva guidato nei quattro anni precedenti una giunta di sinistra. Nel 1952, La Pira dovrà dimettersi da parlamentare: per escludere La Pira dal Parlamento fu approvata una legge ad hoc, che stabilisce l’incompatibilità fra il mandato parlamentare e la funzione di sindaco di una grande città. Il 15 dicembre del 1952, il presidente della Camera Giovanni Gronchi scrive a La Pira per sollecitarlo a scegliere tra le due cariche. La risposta di La Pira è contenuta in un lapidario telegramma : “Davanti alla illegittima alternativa tra Montecitorio e Firenze, alla quale mi ha posto la Camera, scelgo Firenze, perla del mondo” .Giorgio La Pira siederà ancora alla Camera dal 1958 al 1960; e sarà nuovamente eletto deputato nel 1976, un anno prima di morire. Per il resto, non ricoprirà più nessun incarico politico di livello nazionale. Avrà anzi con i Palazzi romani e con i vertici della DC rapporti piuttosto difficili: celebri in particolare le sue polemiche con don Luigi Sturzo, "padre spirituale" della Democrazia Cristiana.

In un celebre discorso pronunciato nel 1954 a Ginevra sul “valore delle città”La Pira affermò il diritto delle città a sopravvivere e quindi il dovere degli amministratori di operare per la pace. Negli anni della guerra fredda convocò a Firenze i Convegni per la pace e la civiltà cristiana , e poi i Colloqui mediterranei. Il punto di partenza era quello della inadeguatezza della guerra a risolvere i conflitti e della inevitabilità del negoziato: l’unica strategia capace di governare l’epoca della decolonizzazione e della presa di coscienza della fondamentale comunanza di destino dei popoli. In questa strategia rientrano anche i gemellaggi di cui La Pira si fece promotore, creando legami tra Firenze e le città di tutti i continenti: Reims, Fez, , Kiev, Filadelfia … “Bisogna unire le città - diceva - per unire le nazioni”. Organizzò anche, nel 1955, un convegno dei sindaci delle capitali del mondo: Washington, Varsavia, Londra, Parigi, Pechino, Mosca. A Mosca andò nel 1959, primo politico occidentale non comunista a varcare la “cortina di ferro”: un’esperienza importante che lo vide anche al Cremlino, dove non ebbe timori a sollevare il problema dell’ateismo di stato.

Quello a Mosca è solo uno dei suoi tanti viaggi volti ad abbattere i muri, costruire ponti coerentemente con l’ipotesi di fondo (storica e teologica) dell’unità della famiglia umana. Uno dei più delicati fu quello in Viet Nam dal quale riportò una offerta di trattative che avrebbe potuto evitare anni di inutile sanguinosa guerra. Altri viaggi importanti li fece in Medio Oriente: non ci potrà essere pace nel mondo, diceva, finché non ci sarà pace tra cristiani, ebrei, musulmani, quella che lui chiamava la triplice famiglia di Abramo”.

Giorgio La Pira muore il 5 novembre 1977 in un  sabato senza vespri” di cui lui stesso aveva parlato. Il giorno dopo, la salma viene esposta a San Marco: i fiorentini si riversano in massa a salutare il “sindaco santo”, mentre da tutto il mondo arrivano personalità della politica e della cultura, uomini di ogni nazione e religione. Il 7 novembre, i funerali: in Duomo, il cardinal Benelli afferma: “Nulla può essere capito di Giorgio La Pira se non è collocato sul piano della fede”.

Il giorno dopo i quotidiani italiani, che erano stati spesso molto critici con La Pira, sono unanimi nel riconoscere il valore della sua opera: “Un profeta da rivalutare” (Corriere della Sera), “Un profeta in politica” (La Stampa), “Il professore che volle essere mediatore di pace” (La Repubblica), “Il profeta della pace planetaria” (Il Tempo).

I suoi amici riflettono sulla sua testimonianza. “Se si dovesse con un tratto segnare il peso della sua vicenda –scrive Carlo Bo- bisognerebbe dire che La Pira è passato, sì, come una meteora nel cielo della politica che era indegna di lui, ma è stato, per altro verso, il simbolo di un’altra e più alta ragione: anche un santo può fare politica a patto che la sua vocazione politica sia soltanto il riflesso e l’eco della sua più antica e vera scelta religiosa”.

E Paolo VI nell’udienza generale del mercoledì esprime il suo cordoglio per la morte del “generoso e fedele servo del Signore Giorgio La Pira".

Viene sepolto nel cimitero di Rifredi. Sulla sua tomba c’è una lampada, dono di alcuni ragazzi fiorentini, israeliani e palestinesi. Sopra c’è scritto “Pace, Shalom, Salam”. Nel 2007, nel trentesimo anniversario della morte e in seguito alla conclusione della fase diocesana del suo processo di beatificazionela sua salma viene traslata nella Basilica di San Marco.

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